La diffusione del coronavirus ci ha obbligato ad affrontare non solo la precaria e fragile condizione dell'esistenza umana, ma anche l'incapacità di gestire sé stessi e il proprio tempo, mettendo in risalto la futilità di tante nostre attività, e della loro natura strumentale, consistente nel tenerci distanti da quel vertiginoso vuoto che ognuno è per sé stesso. La solitudine pone l'individuo in una condizione di completa nudità di fronte a sé stesso e alla propria esistenza, diventa espressione di un disagio culturale, sociale e relazionale, mentre dovrebbe essere una peculiarità posi-tiva. In un mondo saturo di informazioni, la solitudine, dovrebbe rappresentare la possibilità di ritrovare il silenzio dentro la propria anima, e in questo silenzio risco-prire la nostra condizione esistenziale. Quest'articolo propone una riscoperta del valore del silenzio, non solo come strumento per richiamare l'uomo contemporaneo a sé stesso, ma anche, parados-salmente come possibile modalità comunicativa. Solo chi è sceso in profondità, nella propria solitudine, è veramente capace di comunione con gli uomini. Questo è l'uomo che abita il silenzio. Così percepito, il silenzio, non è vuoto, ma pienezza, perché apre l'uomo all'incontro. L'esperienza della solitudine costituisce la prezio-sa possibilità di prendere coscienza di ciò che è veramente importante: gli altri, la socialità. Sarebbe questo il lascito costruttivo, ristabilire le priorità, promuovere la possi-bilità di rinnovamento e ristrutturazione di sé, come base necessaria su cui instaurare un rapporto autentico con l'Altro.